L’argomento più dibattuto, al momento, dagli appassionati di ciclismo sui social è la lotta tra alcune squadre per non retrocedere dalla categoria World Tour a quella Professional, con tutte le storture che la suddetta battaglia comporta. Qualcuno sta aprendo gli occhi, verrebbe da dire. Purtroppo, però, il World Tour ha problemi strutturali da almeno dieci anni e viene da chiedersi se il ciclismo non sia già sprofondato in un baratro troppo profondo dal quale non si può uscire.
Correva l’anno 2012 quando l’Euskaltel-Euskadi, per immagazzinare punti World Tour, sacrificava la sua identità mettendo sotto contratto Tarik Chaoufi e Ioannis Tamouridis. Sempre nella stessa stagione, Sep Vanmarcke, prossimo al trasferimento a quella che al tempo si chiamava ancora Rabobank, veniva escluso dalla formazione della Garmin per la Vuelta poiché il management del sodalizio statunitense non voleva che il fiammingo raccogliesse punti da portare, successivamente, nella sua nuova squadra.
Da allora sono passati dieci anni, il World Tour è stato ulteriormente potenziato e nemmeno troppo lentamente ha fatto terra bruciata intorno a sé. Al Giro d’Italia del 2009, per fare un esempio, le squadre Professional schieravano nomi del rango di Danilo Di Luca, Carlos Sastre, Alessandro Petacchi, Michele Scarponi, Gilberto Simoni, Stefano Garzelli, Mauricio Soler, Simon Gerrans e Giovanni Visconti. Al giorno d’oggi, per una squadra della “Serie B” del ciclismo è impossibile mettere sotto contratto atleti di questo livello, a meno che esse non ci mettano le mani quando questi sono ancora ragazzini, come nel caso dell’Alpecin-Fenix con Mathieu van der Poel.
Il vero problema, però, è che non solo questi corridori non li hanno le Professional, ma non li ha nemmeno metà del World Tour. 47 dei primi 100 corridori dell’attuale classifica mondiale sono tesserati per le seguenti sei squadre: UAE Team Emirates, Jumbo-Visma, Quick Step, Bahrain Victorious, Ineos e Bora Hansgrohe. 1/3 del World Tour, sostanzialmente, ha in mano il 50% della ricchezza in possesso di quella che dovrebbe essere l’elite del ciclismo.
Già da un punto di vista prettamente matematico, risulta assai bizzarro che in un contesto ove ci sono 34 squadre professionistiche, più della metà di queste faccia parte dell’elite. E’ come se nel calcio ci fossero più squadre in Serie A che nelle leghe minori. Viene da ridere solamente a pensarci. Se poi all’interno di questa elite non esiste un sistema di regole salariali che punti a mettere tutti sullo stesso piano, ecco che la frittata è servita. Anche nelle varie leghe sportive statunitensi, del resto, senza salary cap e luxury tax, verrebbero rapidamente a crearsi differenze troppo grandi tra i big e gli small market.
Noi dobbiamo ragionare sui grandi giri, poiché i grandi giri sono la vetrina del ciclismo. Gli sponsor hanno bisogno di partecipare alle corse a tappe di tre settimane per poter realmente vedere un ritorno dal loro investimento sulle due ruote. E i nuovi appassionati si creano tramite i brand più noti del nostro sport: Tour de France e Giro d’Italia. Le gare in linea durano troppo poco per avere un reale impatto sul seguito del ciclismo, mentre le corse di una settimana non presentano alcuna competizione con un nome che vada oltre il contesto due ruote.
Relativamente ai grandi giri, dunque, questo World Tour deforme innesca un effetto domino che danneggia il ciclismo sia sul versante degli spettatori che su quello degli investitori. L’accesso ai grandi giri è difficilissimo, o riesci a comprare una licenza World Tour o devi incrociare le dita e sperare che arrivi una delle appena tre wild card che l’organizzatore ha a disposizione. Rimanendo nel contesto italiano, dunque, a nessuno sponsor medio-piccolo, quelli che un tempo facevano la squadra per partecipare principalmente al Giro d’Italia, conviene investire sul ciclismo. Il gioco non vale la candela.
Come detto, però, gli sponsor che vogliono entrare non sono gli unici a venire danneggiati dall’esistenza di quest’elite di cartapesta. Paghiamo anche noi spettatori, perché metà del World Tour non ha il materiale umano per fare realmente tre grandi giri ad alti livelli. E mentre il Tour de France è talmente importante che certe problematiche non lo sfiorano, il Giro d’Italia, specialmente dal post pandemia, sta pagando tantissimo le storture del World Tour.
Il Giro del 2004, l’ultimo pre World Tour, viene ricordato un po’ come la rappresentazione massima della Corsa Rosa quale “sagra paesana”. Una manifestazione a cui partecipavano solamente italiani in squadre italiane. Al di là che non era proprio così, ma Acqua&Sapone, Panaria, Alessio, De Nardi e Vini Caldirola, in quell’occasione, schieravano rose migliori, e in taluni casi pure di gran lunga, rispetto a quelle che Cofidis, Israel, Lotto Soudal, EF e Ag2r hanno portato all’ultimo Giro.
Alla “sagra paesana” del 2004 solo una squadra aveva due corridori tra i primi 8 della classifica generale, vale a dire la Saeco. Al Giro del 2022 tre sodalizi hanno piazzato due corridori in top-8. Chiaramente se un 1/3, e siamo buoni, dei team che vengono al Giro non portano squadre all’altezza (e non basta un velocista di grido per buttare un po’ di fumo negli occhi agli appassionati), la qualità della gara ne risente e con essa lo spettacolo che viene proposto. L’enorme calo di popolarità a cui sta andando incontro il Giro d’Italia, ad ogni modo, non è un problema solamente per la Corsa Rosa, ma per tutta la galassia delle due ruote.
Pure la Vuelta viene toccata dalle stesse problematiche del Giro, ma una posizione in calendario più favorevole e un patron dinamico come Javier Guillen, permettono alla gara spagnola di dribblare un filo meglio le storture del sistema attuale. Del resto anche il Giro, finché era guidato da un leader carismatico e con le idee chiare quale Angelo Zomegnan, non se la passava male come adesso. Ma se è vero che ci sono figure preposte per fare gli interessi delle corse, è anche vero che l’UCI per prima dovrebbe curare la crescita del nostro sport, cosa che non sta facendo con la continua alimentazione di un sistema che soffoca tutti ad eccezione dei pochi soggetti veramente ricchi che investono nel ciclismo.
Ovviamente tra il modello del sopraccitato 2004 e quello attuale ci sono delle vie di mezzo. Ha senso che esista un’elite che ha l’onere e l’onore dei prendere parte a tutte le gare più prestigiose del calendario. Questa, però, deve essere un vero circolo esclusivo, non un’elite di cui fanno parte più del 50% degli attori che compongono l’universo ciclismo professionistico. Chiaramente un sistema veramente sostenibile deve assegnare, di diritto, al massimo la metà degli inviti per prendere parte a un grande giro. Non 19 su 22.