Il movimento ciclistico ecuadoriano, fino a pochi anni fa fratello minore del vicino colombiano, ha trovato il proprio humus nell’area compresa tra le province del Sucumbios e del Carchi, zona che si sviluppa intorno ai 3000 metri di altitudine e nella quale, secondo stime approssimative per difetto, il 40% della popolazione si sposta in sella a una bicicletta.
Carapaz, Narvaez e i cugini Cepeda, senza dimenticare le nuove leve come Nixon Rosero (Martin Lopez invece viene da un’altra parte del paese), sono tutti cresciuti negli stessi luoghi e frequentato le stesse scuole, a El Playón.
Proprio nella piccola comunità dove Juan Carlos Rosero, 3 volte vincitore della Vuelta a Ecuador e primo mentore della maglia rosa 2019, prematuramente scomparso quasi dieci anni fa, ha fondato la propria scuola di ciclismo, è nato, il 4 aprile del 1997, Jhonatan Narváez, uno dei corridori più in vista durante l’inizio della stagione delle classiche negli ultimi due anni.
La storia del suo avvicinamento al ciclismo è comune a tante altre, un bambino iperattivo in una famiglia con la passione per le due ruote, così come sa di già sentito quella della sua prima gara, in cui arriva ultimo inzuppato dalla pioggia. Molto meno banale, invece, è il prosieguo della sua carriera.
Al primo anno da juniores si fa conoscere grazie alla medaglia d’argento ai campionati panamericani in linea e al secondo posto, condito da un successo parziale, alla Vuelta al Porvenir, la principale corsa a tappe sudamericana della categoria, biglietto da visita per l’approdo alla colombiana Fundaciòn Everet.
Durante il secondo, dopo aver fatto faville sempre ai campionati panamericani, questa volta sulla pista di Aguascalientes, conclusi con un bottino di due ori, nell’inseguimento individuale (dove fa segnare il record del mondo nelle qualificazioni) e nella corsa a punti, Narváez si misura per la prima volta coi pari età europei alla Vuelta Internacional al Besaya.
Nella rassegna cantabrica non solo vince una tappa e la generale, davanti ad atleti poi diventati professionisti come Juan Pedro Lopez, Felix Parra o Joan Bou, ma si guadagna anche le attenzioni del talent scout per eccellenza del mondo del ciclismo: Joxean Fernandez, per tutti Matxin.
Lo spagnolo, all’epoca accasato alla Quick-Step, non perde tempo e porta subito Jhonatan alla Bakala Academy di Leuven per testarne i valori. I risultati sono oltremodo soddisfacenti e gli valgono un contratto per la sua prima stagione da U23 alla Klein Constantia, squadra satellite della corazzata belga.
Nonostante sulla carta il passaggio ad una nuova categoria, ma non solo, anche ad un mondo così diverso, in corsa e fuori, da quello in cui aveva mosso i primi passi da corridore, presentasse molti interrogativi, l’ecuadoriano si rivela sin da subito uno degli elementi più affidabili in una compagine ricchissima di qualità agendo da luogotenente privilegiato dei capitani.
Alla chiusura del sodalizio ceco-belga, una decisione ancora a distanza di anni difficile da comprendere, Narváez continua il suo percorso alla Axeon Hagens-Berman di Axel Merckx.
Con la maglia di una delle più note fabbriche di talenti in circolazione, Narvaez fa sue la generale del Circuit des Ardennes e una tappa al Tour of Gila, mettendosi dietro sia bucanieri del sommerso quali Antomarchi, Zoidl o Tvetcov che prospetti del calibro di Lambrecht o Kuss, e si conquista la chiamata della Quick-Step, attenta a monitorarne lo sviluppo nonostante l’allentamento del legame.
La transizione verso il piano di sopra va addirittura più liscia rispetto a due anni prima, come testimoniato dalle top 10 al Colombia Oro y Paz, alla Faun Ardeche Classic e alla Dwars van West Vlaanderen, nonché dal podio alla Drome Classic, prestazioni che mostrano, oltre a capacità di adattamento sicuramente eccezionali, anche un certo feeling con le corse di un giorno, specie se ricche di asperità non troppo lunghe e in condizioni atmosferiche avverse.
Dopo essersi messo in luce anche al Tour de Wallonie, a proposito di gare con salite ”da classiche”, il corridore ecuadoriano a fine anno decide, nonostante un contratto in essere con la compagine belga, di andare a rimpolpare la colonia sudamericana in seno al Team Sky (di lì a poco Ineos).
La scelta, difficile da comprendere in base a ragioni tecniche, si rivela poco felice sul piano delle soddisfazioni personali, obbligandolo ad un 2019, per usare un eufemismo, di transizione. Alla ripartenza dell’annata 2020, invece, si presenta un Narváez deciso a riprendere il filo del discorso interrotto con il trasferimento alla corte di Dave Brailsford e che già dal Tour de Wallonie sembra avere il colpo di pedale dei giorni migliori.
Se nella corsa belga solo un percorso fin troppo facile e le squadre dei velocisti gli negano la gioia della vittoria, nella Settimana Internazionale Coppi e Bartali, Jhonatan, trova terreno fertile per mettere a frutto il suo stato di forma: vince in volata a Riccione e si porta a casa, cortesia degli abbuoni, la generale davanti ad un Ulissi in grande spolvero.
Successivamente, al Giro d’Italia teatro del magic moment Ineos, ottiene la sua prima affermazione in un grande giro, arrivando da solo sotto il diluvio a Cesenatico nella tappa Nove Colli, dopo aver frustrato in pianura il rientro del compagno di fuga Padun, appiedato da una foratura quando i due erano ormai prossimi a giocarsi la vittoria.
Narvaez conquista la dodicesima tappa del Giro d’Italia 2020
La prima parte della terza stagione in forza alla squadra britannica, alla quale Narváez arriva sull’onda della conclusione della precedente, lo vede sì colpire col terzo posto sul muro di Fayence al Tour du Var, ma soprattutto con le prove nella due giorni di apertura del calendario belga, le quali sembrano aprirgli invitanti prospettive.
Alla Omloop Het Nieuwsblad è tra i primi a scollinare il Muur, mentre alla Kuurne Bruxelles Kuurne è l’unico del plotone ad avere il coraggio e la prontezza di seguire l’attacco ai -80 di Mathieu van der Poel, deflagrante sullo sviluppo della corsa.
Purtroppo però è il preludio a un’annata silenziosa e modesta, con squilli praticamente inesistenti che fanno pensare da un lato ad un exploit isolato di quelli che spesso si vedono a inizio anno e dall’altro ad un atleta un po’ fuori contesto in un ambiente nel quale le corse di un giorno sono tradizionalmente subordinate ai grandi giri. La seconda considerazione potrebbe confermarsi vera anche in questo 2022, ma la prima sicuramente no.
L’ecudoriano infatti ritorna sul luogo del delitto e lo fa in maniera se possibile ancora più impressionante rispetto a 365 giorni prima: alla Omloop è uno dei soli quattro atleti in grado di seguire il ritmo indiavolato di Benoot sui berg e alla Kuurne viene inghiottito dal gruppo quando si appresta a sprintare per la vittoria insieme a Laporte e Van der Hoorn, mentre alla Strade Bianche, corsa da capitano a causa del (o grazie al) forfait di Pidcock, a lungo è nel gruppo che si gioca il secondo posto alle spalle dell’irraggiungibile Pogacar.
Il profilo delineato dai suoi risultati da professionista e da U23 è quello del più belga tra i corridori sudamericani, il maestro dei ventagli Nairo Quintana ci perdonerà, vuoi per attitudine, vuoi per effettiva affinità ai percorsi delle gare del nord, sui quali è in grado di tirare fuori il meglio di sé.
Restano i dubbi invece sulla sua compatibilità con il modus operandi Ineos, sì cambiato in meglio negli anni ma ancora distante dall’imprinting lefeveriano di Narváez, anche se la convivenza con Pidcock sembra poter portare benefici ad entrambi.