Il ciclismo dei grandi giri, da sempre, pullula di corridori che hanno le qualità per fare classifica, ma non sembrano possedere le doti necessarie per trionfare sulle tre settimane. Quelli che spesso chiamiamo “regolaristi”, atleti che vanno forte in salita, ma non quanto i migliori, e che non riescono a sopperire alle loro mancanze con la cronometro. Al giorno d’oggi, il ruolo di questa figura nell’economia di Giro, Tour e Vuelta sembra sempre più di contorno. Louis Meintjes, l’emblema della categoria anche se di recente si è riscoperto un po’ più battagliero, e i suoi derivati stanno al fianco dei big in ogni tappa di montagna finché non arriva, inesorabile, il momento in cui le gambe non ce la fanno più e questi sono costretti a staccarsi e a cercare di limitare i danni.
I regolaristi del 2022, in sostanza, conoscono la loro posizione nella catena alimentare del plotone e accettano perennemente quel destino beffardo che li vede costretti, puntualmente, ad alzare bandiera bianca nel testa a testa contro i fuoriclasse dell’epoca contemporanea. Eppure non bisogna certamente tornare ai tempi di Carlo Clerici e Arnaldo Pambianco per ritrovare un ciclismo che avesse familiarità con parole come “imboscata” e “fuga bidone”. Sono passati appena undici anni da quando Thomas Voeckler vestì i panni di Icaro e accarezzò il Tour de France. E solamente una stagione prima, un altro corridore, meno appariscente di T-Blanc, ma non meno anarchico, scalò la piramide sociale del gruppo, arrivando a un passo dal vincere uno dei Giri d’Italia più belli di sempre.
David Arroyo Duran, nato a Talavera de la Reina all’alba degli anni ’80, era la personificazione del concetto di regolarista. In salita se la cavava, ma trovava sempre qualcuno più forte di lui. A cronometro, invece, era piuttosto negato. Avesse avuto uno spunto veloce degno di nota, avrebbe potuto ampliare i propri orizzonti. Ma il castigliano era fermo anche in volata. Il destino di Arroyo, in sostanza, prevedeva che questi si battesse costantemente per entrare tra i primi dieci di un grande giro. E sovente nemmeno ci riusciva. David ha raccolto ben otto top-20, in carriera, nelle gare di tre settimane e appena due top-10.
Ad ogni modo, David è uno che è entrato nel ciclismo dei grandi per la porta principale. Dopo aver vinto il titolo nazionale U23 nel 2000, infatti, il castigliano firmò il suo primo contratto tra i professionisti con quella che, al tempo, era una delle squadre più importanti di Spagna: la ONCE – Eroski di Manolo Saiz. Arroyo, però, non ingranò mai alla corte del manager cantabrico e, al termine della stagione 2003, decise di fare un passo indietro e accasarsi in un sodalizio più piccolo, la portoghese L.A. Pecol. La scelta pagò dividendi, poiché David, in quel microcosmo lusitano che all’epoca dava asilo a tantissimi corridori spagnoli in cerca di riscatto, rilanciò in modo veemente la sua carriera.
Alla Volta a Portugal 2004, Arroyo si impose in solitaria su ambedue gli arrivi in salita in programma, il santuario di Nossa Senhora de Graca e l’infinito Alto da Torre, e conquistò il secondo posto in classifica generale alle spalle del connazionale David Bernabeu. In seguito a quelle prestazioni, arrivò la chiamata della Illes Balears – Caisse d’Epargne, l’odierna Movistar. Alla corte di Unzué, Arroyo non è mai stato la prima scelta, oscurato da Alejandro Valverde e, in misura minore, da Joaquim Rodriguez. Il castigliano ha dovuto correre spesso per gli altri, come al Tour de France del 2006, quando si ritrovò ad affiancare Oscar Pereiro Sio, un regolarista che ce l’ha formalmente fatta, anche se solamente per la squalifica di Floyd Landis.
Arroyo, qualche soddisfazione qua e là, riuscì a togliersela, in particolare sul finire dell’estate del 2008, quando vinse la Subida a Urkiola e la 19esima tappa della Vuelta, la Las Rovas-Segovia. Tuttavia, il castigliano sembrava costretto a essere uno di quei moltissimi corridori di cui tutti ci scordiamo l’esistenza il giorno seguente al suo ritiro. Uno come tanti, perennemente imprigionato in un purgatorio senza apparente via d’uscita. Poi, però, arrivò il 2010. Joaquim Rodriguez aveva lasciato la Caisse d’Epargne per la Katusha e Valverde era stato squalificato, nel bel mezzo della stagione, per vicende relative all’Operacion Puerto del 2006. Eusebio Unzué, in sostanza, era costretto a fare le nozze coi fichi secchi per evitare che la sua squadra facesse un’annata totalmente anonima. Ma quella, al tempo, come ci dimostra la storia del sopraccitato Pereiro, era la specialità della casa.
L’unica vittoria conquistata da Arroyo, in carriera, in un grande giro
Al Giro d’Italia, che iniziava l’8 di maggio da Amsterdam, Arroyo era una delle tante mezze punte della Caisse d’Epargne insieme a Marzio Bruseghin, terzo alla Corsa Rosa nel 2008, e al giovane arrembante Rigoberto Uran. David, nella grande corsa a tappe italiana, aveva colto un decimo posto nel 2007 e un undicesimo nel 2009. Aveva un buon feeling con la manifestazione che si snoda lungo lo Stivale, ma nessuno, durante i primi giorni di gara, lo reputava un nome capace di insidiare i grandi favoriti Ivan Basso, Cadel Evans e Alexandre Vinokourov. Del resto, l’avvicinamento al Giro del castigliano non fu tra i più entusiasmanti e tra il prologo iniziale e la cronosquadre del quarto giorno, perse parecchio tempo dai migliori già nelle primissime battute della competizione.
Fu la leggendaria tappa di Montalcino, 220 chilometri sotto la pioggia tra gli sterrati toscani, a regalare i gradi di capitano della Caisse d’Epargne ad Arroyo. Il castigliano, infatti, fu abile a evitare la caduta che coinvolse Nibali, Basso e Scarponi e riuscì a concludere la frazione in questione al quinto posto, a 12″ dal vincitore Cadel Evans. Il giorno seguente, sul Terminillo, tuttavia, Arroyo andò in leggera difficoltà e perse circa un minuto dal gruppo della maglia rosa Vinokourov. Dopo i primi dieci giorni, David occupava l’undicesima posizione in classifica generale. Esattamente il posto in cui, in linea teorica, dovrebbe stare un regolarista come lui.
Poi, però, nel corso dell’undicesima tappa, la Lucera-L’Aquila di ben 262 chilometri, accadde l’imponderabile. L’Astana del leader Vinokourov, che l’anno prima era stata saccheggiata da Armstrong e Bruyneel, i quali convinsero buona parte dei grossi calibri del team a trasferirsi alla Radioshack, non aveva i mezzi per tenere chiusa la corsa in una frazione così lunga. Men che meno li aveva la BMC di Evans, squadra nata da pochi anni che aveva appena cominciato a fare investimenti importanti. Chi, invece, avrebbe potuto sventare eventuali imboscate, quel giorno, era la Liquigas. Il sodalizio italiano, però, aveva visto ambedue i suoi leader, Basso e Nibali, perdere tempo sugli sterrati di Montalcino e, evidentemente, non aveva voglia di levare le castagne dal fuoco agli avversari.
Morale della favola, in una giornata da tregenda, il gruppo maglia rosa si lascia sfuggire una fuga comprendente ben 56 atleti. Tra i briganti che assaltano la diligenza rosa sulle strade dell’Italia centro-meridionale ci sono: Carlos Sastre, re del Tour 2008 e quarto classificato del Giro 2009, il quale aveva perso molto tempo tra Terminillo e Montalcino, Bradley Wiggins, quarto alla Grande Boucle l’anno prima, Richie Porte, neoprofessionista rivelazione di quelle settimane che a fine giornata vestirà il simbolo del primato, e, ovviamente, David Arroyo, che sta provando a evadere dal suo destino ben scortato da quattro compagni. Quella banda di anarchici arriverà ad avere anche diciotto minuti di vantaggio sul plotone maglia rosa. A un certo punto, ad ogni modo, Vinokourov e gli altri, i quali ormai hanno le spalle al muro, sono costretti a lavorare in prima persona, dato che i loro compagni non ne hanno più, e riescono, così, a rosicchiare qualche minuto ai battistrada.
Sul traguardo dell’Aquila si impone il russo Evgeni Petrov, che precede di cinque secondi Cataldo e un redivivo Sastre. Arroyo e Wiggins si piazzano ambedue in top-10, a sette secondi da Petrov, mentre lascia qualcosa in più sul piatto Porte, che nel finale va in difficoltà. David, in questo modo, scala posizioni fino a raggiungere, momentaneamente, la seconda piazza. Porte lo precede di 1’42”. Il tasmaniano, però, non è ancora il grande corridore che abbiamo ammirato nel decennio successivo. E’ al primo grande giro della carriera e sembra poter crollare da un momento all’altro. Il castigliano, invece, è uno solido, che conosce bene quelle tre settimane che, al tempo, erano generalmente più dure rispetto ad oggi, dato che le frazioni erano, mediamente, decisamente più lunghe.
La fuga bidone per eccellenza del ciclismo del nuovo millennio
Il vantaggio di Arroyo su Sastre, al termine della tappa dell’Aquila, è di oltre cinque minuti. Vinokourov si trova a più di otto primi, mentre Evans, Nibali e Basso devono recuperargli circa dieci minuti. Nell’arco di ventiquattro ore, la vita del castigliano è cambiata totalmente. Ciò che prima era impensabile, ora appare quantomai tangibile: David può seriamente vincere il Giro d’Italia. Già, perché col vantaggio accumulato, non gli serve andare forte come Basso o Evans per vincere, ma può riuscirci, banalmente, esprimendosi sui suoi livelli abituali.
La reazione dei big, e in particolar modo della Liquigas di Basso e Nibali, è feroce. Nella 14esima tappa, la Ferrara-Asolo, basta il Monte Grappa per spaccare il gruppo in mille pezzi. I due campioni italiani sopraccitati, insieme a Evans e Scarponi, fanno la differenza. Poi Nibali seminerà tutti in discesa e andrà a prendersi il successo parziale. Porte soffre e abbandona anzitempo i sogni di gloria. Arroyo, al contrario, si difende bene, conclude la frazione in un gruppo di nove atleti che arriva al traguardo a 2’25” dallo Squalo dello Stretto, e si veste di rosa. Il suo margine sui big è ancora molto largo: Nibali si trova a 6’51”, Vinokourov a 7’15”, Cadel Evans a 7’26”, Ivan Basso a 7’43” e Michele Scarponi a 9’02”. All’indomani, però, è in programma un’altra battaglia, che dovrà svolgersi sulle rampe asprissime dello Zoncolan.
Sarà proprio il Mostro della Carnia a rivelare ad Arroyo il nome del suo rivale più temibile. Ivan Basso, che fino a quel momento era rimasto nascosto nella penombra, coperto dalla stella nascente del compagno Nibali, dà prova di essere tornato quello degli anni migliori dopo un 2009 opaco. Il varesino spazza via la concorrenza, piegando Cadel Evans dopo un epico braccio di ferro, e stravince in vetta allo Zoncolan rifilando a tutti distacchi superiori al minuto. Arroyo si difende come può e arriva in cima a quel colosso deforme 3’50” dopo Ivan il Terribile. A una settimana dalla fine del Giro 2010, il tesoretto che il castigliano deve difendere dall’assalto del capitano della Liquigas è di 3’33”.
Un margine non enorme, ma nemmeno banale, che costringe Basso a dover attaccare con costanza per mettere alle corde la maglia rosa. La terza settimana è un trionfo di salite: c’è la suggestiva cronoscalata di Plan de Corones, c’è il Mortirolo e c’è il Gavia. Lo spazio, per il varesino, non manca, ma Arroyo, nella prova contro il tempo che prevedeva l’arrampicata sull’erta sopraccitata nota anche come Kronplatz, respinge abilmente il primo match point dell’avversario. In quei 12 chilometri infernali che portano fino a quota 2273, Ivan guadagna appena 1’06” su David. Decisamente meno rispetto a quanto ci si poteva aspettare alla vigilia.
Superata Plan de Corones, David può tirare il fiato per due giorni, prima della tappa della verità: la Brescia-Aprica di 195 chilometri. Maggio sta tramontando, ma sul Mortirolo fa freddo e, a un certo punto, l’ennesimo temporale di un Giro d’Italia caratterizzato dall’acqua si abbatte sui corridori. La Liquigas prende il toro per le corna sin dall’imbocco del Titano della Valtellina, ennesima erta dalle pendenze mostruose di quella Corsa Rosa che era veramente la “Corsa più dura del Mondo nel Paese più bello del Mondo“. Kiserlovski, Szmyd, Nibali e Basso compongono, nell’ordine, il treno del sodalizio in verde e blu che mette sotto sopra il plotone sin dal momento in cui la strada inizia a impennarsi.
Dopo appena due chilometri di Mortirolo, Arroyo si stacca insieme al compagno Uran, che gli fa il passo, da un plotoncino di dieci corridori. Il castigliano sembra già prossimo alla resa. Nel mentre Basso si mette in proprio e sgretola il gruppo, levandosi di ruota tutti tranne il fidato Nibali e un ispiratissimo Michele Scarponi. David, però, è un corridore di trent’anni, che conosce il suo corpo e i suoi limiti, ha deciso di gestirsi e col passare dei chilometri, anziché sprofondare, rialza la testa, sorpassa alcuni dei corridori che avevano mollato dopo di lui e fa capire di non voler gettare la spugna. Ivan, invece, si vede costretto a sollevare leggermente il piede dall’acceleratore, poiché Nibali è al limite e lui ha bisogno dello Squalo dello Stretto, che deve fargli da Cicerone in discesa, suo storico tallone d’Achille.
In vetta al Mortirolo la pioggia si fa più forte, ma l’azione di Arroyo sembra ancora brillante. Il castigliano supera un pugno di ammiraglie e scollina a 1’55” dal terzetto composto da Basso, Nibali e Scarponi. Ciò che accade nei chilometri immediatamente successivi al passaggio in cima a quell’incubo verticale che domina la Valtellina è, banalmente, uno dei momenti più iconici della storia recente della Corsa Rosa. La discesa del Mortirolo, già di per sé piuttosto tecnica, è stata resa ancor più complessa dall’acqua che si infrange senza sosta sull’asfalto. Scarponi, Basso e Nibali scendono piano. Vinokourov, il loro primo inseguitore, prova ad accelerare, nel tentativo di crearsi l’opportunità per rientrare, ma dopo aver sbagliato una curva, opta per la prudenza.
Arroyo, ancora maglia rosa virtuale, è passato sotto lo striscione del GPM poco dopo Cadel Evans. Potrebbe limitarsi a riprendere l’australiano e a proseguire insieme a lui. In fondo, per un corridore del suo rango, in linea teorica, avrebbe poco senso buttarsi giù a tomba aperta su quelle stradine demoniache, con il rischio di compromettere un probabile podio per inseguire una vittoria che sembra sempre più lontana. Ma a David, in quel momento, non frega nulla dei consigli che vengono dati, solitamente, a quelli come lui. E’ un regolarista che ha l’occasione della vita. Al posto suo, tantissimi corridori con le sue caratteristiche, avrebbero fatto loro il più retorico dei mantra: “Chi si accontenta gode”. Invece Arroyo sfida sia il pericolo che quel destino che per lui sembrava avere in programma solamente un ruolo marginale nella storia del ciclismo, forte di grandiose qualità di discesista che in moltissimi ignoravano, e dipinge un quadro di Picasso scendendo da quei viscidi e infidi tornanti.
Il capitano della Caisse d’Epargne riprende e stacca Evans, non proprio l’ultimo arrivato nel fondamentale, nemmeno su superficie bagnata (memorabile la discesa che farà l’anno successivo, al Tour de France da lui vinto, nella frazione di Gap), e lo semina con facilità dopo pochi tornanti. Successivamente, raggiunge il duo composto da Carlos Sastre e John Gadret, li infila con un sorpasso all’interno degno del miglior Valentino Rossi, e li lascia là. Nemmeno il tempo di rimanere incantanti per il gesto tecnico di David, che questi ha già acciuffato anche Vinokourov, il quale aveva scollinato con un minuto di vantaggio su di lui. Al termine della discesa, non c’è più nessuno tra Arroyo e il gruppo di Basso e il distacco della maglia rosa dal suo grande avversario è di appena 38″.
Mettetevi comodi e gustatevi una delle più grandi prestazioni in discesa di tutti i tempi
Arrivato a questo punto, però, Arroyo non può più fare affidamento solo su sé stesso per limitare i danni, ma deve trovare la collaborazione di qualcuno. All’imbocco dell’Aprica con lui c’è il solo Vinokourov, che già non sembra essere troppo entusiasta all’idea di collaborare con il castigliano. Poco dopo, sul duo, rientrano anche Evans, Sastre e Gadret. I cinque, a 13 chilometri dal termine, hanno comunque una 40ina di secondi dai tre battistrada, uno svantaggio risicato. David si è creato l’occasione perfetta per difendersi in modo eccellente nel giorno, per lui, più complicato. In quegli attimi che precedono l’imbocco dell’ultima erta di giornata, le chance del castigliano non solamente di salvare la maglia rosa, ma anche di vincere il Giro d’Italia, sono assai elevate. Se riuscisse ad arrivare al traguardo con quel distacco, infatti, conserverebbe un margine di oltre 1’40” su Basso e, a quel punto, al varesino resterebbero solamente la tappa del Gavia e una breve cronometro di 15 chilometri per colmare il gap.
Tra l’altro, Evans e Vinokourov avrebbero tutto l’interesse a collaborare con Arroyo, dato che il primo, in quel momento, occupava il terzo posto virtuale e il secondo doveva limitare i danni da Scarponi e Nibali per provare a giocarsi una top-5. Tuttavia, il kazako non ha alcuna voglia di aiutare il castigliano a vincere il Giro. L’australiano dà qualche cambio in più, ma non sembra essere troppo convinto. E nemmeno Sastre, nonostante sia un connazionale ed ex compagno di squadra alla ONCE di Arroyo, dà una mano concreta a David.
Del resto viene anche spontaneo credere che corridori che hanno conquistato gare come il Tour, il Mondiale, la Liegi e la Vuelta, giunti a quel punto del Giro, consci di non poterlo vincere loro, preferissero perdere da un campione affermato come Basso, piuttosto che da un carneade come Arroyo. Alla fine, saranno proprio le dolci pendenze dell’Aprica, e non le aspre rampe dello Zoncolan, di Plan De Corones o del Mortirolo, a recitare il ruolo del cupo mietitore che spazza via, definitivamente, i sogni di gloria di Arroyo. Il castigliano, insieme a quella ciurma di avidi bucanieri che lo circonda, sprofonda brutalmente negli ultimi dieci chilometri di quella frazione indimenticabile e arriva al traguardo con 3’05” dai primi.
Basso, a due giorni dal termine del Giro, si veste di rosa e Arroyo, che ora si trova a 51″ di distacco dal varesino, non rappresenta più, per lui, una minaccia. Il castigliano, tra Gavia e Tonale, si difenderà comunque in modo egregio, riuscendo addirittura a concludere l’ultima frazione di alta montagna davanti a Nibali. La vittoria finale non è arrivata, ma quel secondo posto, benché dal sapore agrodolce, resta un risultato che nessuno si sarebbe mai aspettato alla vigilia e che, complice pure una condotta di gara intelligente e battagliera, illumina la carriera di un corridore come tanti che ha saputo ritagliarsi un posto privilegiato nella storia delle due ruote.
Il castigliano continuerà a correre fino al 2018, senza ulteriori grossi sussulti e reinventandosi, nelle ultime stagioni, come chioccia per i tanti giovani interessanti passati in Caja Rural tra il 2013 e il 2017. Arroyo è stato una one hit wonder, ma anche un Prometeo che ha rubato il fuoco agli Dei per darlo agli umani. Purtroppo, però, benché la sua discesa del Mortirolo sia un ricordo indelebile per tutti coloro che, quel giorno, erano davanti alla televisione, la sua eredità è andata persa. Arroyo ci ha dimostrato che, con la giusta dose di fantasia, acume e coraggio, anche un regolarista può ambire al paradiso. Gli epigoni attuali di David, tuttavia, non sembrano avere alcuna intenzione di ascoltare quell’inno alla libertà che Arroyo ha scritto durante il Giro d’Italia 2010. Le “fughe bidone” e le “imboscate” sono, ormai, solamente ricordi sbiaditi che abitano nei meandri della nostra memoria e i grandi giri sono incatenati a un canovaccio che vede il più forte vincere sempre e comunque, anche quando si espone in prima persona solamente in rarissime occasioni, come accaduto all’ultima Corsa Rosa.